Da CARO LUCIO RISPONDO a tutta la sua vita, giù la maschera per Sergio “Rossomalpelo” Gaggiotti
Marzo 25, 2022Con grande gioia diamo il benvenuto a Sergio “Rossomalpelo” Gaggiotti, artista poliedrico che sta raccogliendo ampi consensi sulle piattaforme digitali e non solo. Recentemente impegnato nella promozione del lavoro CARO LUCIO RISPONDO, condividiamo con felicità l’intervista a Sergio “Rossomalpelo” Gaggiotti, grati e onorati per il suo tempo e la cortesia riservataci! Leggeremo di più sulla vita musicale e artistica, Sergio “Rossomalpelo” Gaggiotti ci racconterà con quelle che sono le collaborazioni, fra le tante, quelle con Red&Blue, le esperienze, e i progetti futuri. Ma largo ai convenevoli, diamo un caloroso benvenuto a Sergio “Rossomalpelo” Gaggiotti!
- Com’è nata tua la passione per la musica?
Ciao Andrea, grazie per concedermi la possibilità di raccontarmi.
La mia passione è nata nel modo più banale e doloroso che esista.
Per il mio 16° compleanno mio padre mi regalò una chitarra, due mesi dopo è morto consumato da un cancro. Ho impiegato circa due anni a tirarla fuori dalla sua custodia, poi è stato amore immediato.
Ho sempre amato la scrittura, la prosa, la poesia, la narrativa in generale, con la chitarra ho scoperto che tutto poteva essere accompagnato da suoni, da note scelte e organizzate come melodie, armonie; ho scoperto la musica e molti mondi che potevano rappresentarla. Da allora studio, ascolto, invento e mi diverto a creare insiemi di note in sequenza che formino armonie e melodie, senza prendermi troppo sul serio, divertendomi, appunto.
- Com’è nato “Sergio “Rossomalpelo” Gaggiotti” e il suo personaggio, il suo sound?
Quando vivi a Roma, in periferia, e sei rosso di capelli, non hai molte alternative ai nomignoli che ti guadagni. Quel soprannome odiato in gioventù perché sinonimo di scherno pesante, presa in giro collettiva da parte di qualsiasi persona incontrasse i miei passi: adulti, bambini o adolescenti, un giorno in me ha guadagnato il valore del riscatto. Scoperto poi il personaggio del Verga, non ho potuto che assumerlo come mio nome proprio per personale volontà di non soccombere agli eventi, allo stato sociale, all’impossibilità di non sentirmi diverso. Così ho inventato un finale alternativo a quello che lo stesso Verga aveva prospettato per quel giovane brutto, cattivo e rosso di capelli: La fuga, la scuola, e un ritorno da uomo migliore. Tutto questo non ha mai avito a che fare con la musica poiché sono sempre stato Rossomalpelo e dopo aver deciso di scrivere canzoni per la mia voce, non ho avuto il minimo dubbio ad usare il mio nome, qualunque cosa portasse con sé.
Il mio sound non lo ho mai immaginato, scrivendo prima il testo e poi la musica scelgo ogni volta il vestito migliore lasciandomi suggestionare dal suono delle parole, dal loro scorrere a voce. Mi piace immaginare di comporre a seconda delle parole, della loro “significanza”, a volte anche lasciandomi guidare dal significato, sempre però ho in mente di scrivere musica divertente, che risulti tale anche per chi la dovesse suonare. Così nascono brani che non sono sicuri nel tempo, nel suo fluire morbido e “pari”, ma dispare parti nascoste tra battute e parole che tento di non ripetere mai.
– Da un incontro o da uno scontro, tutto può essere ispirazione. Com’è nato il lavoro CARO LUCIO RISPONDO?
Rispondere a Lucio Dalla è stato un obbligo “sentito” fin da quando ho ascoltato il brano per la prima volta. Ero giovanissimo e non ho potuto comprendere appieno quello che Lucio voleva farci arrivare, mi chiedevo proprio cosa potesse significare il gesto di scegliere una lettera e infilarla dentro una canzone. Sono passati anni e ogni volta che qualcosa mi riportava ad una immagine di amici o anche a quella stessa canzone, dentro suonavano le stesse parole: “Caro Lucio rispondo”. L’incipit di una lettera di risposta che ho sempre sentito di dovergli spedire. Mai avrei pensato di farlo davvero, mai immaginato una sua risposta, era però un dovere, un obbligo che un amico non può non assumere: rispondere a lettera scritta . Soltanto in questo assurdo tempo però ho raccolto il coraggio di farlo e ho immaginato nove risposte a quella sua missiva. Nove lettere che non vedranno mai risposta ma che erano un obbligo da molti anni. Questo presente assurdo che lui ha invece immaginato come un futuro diverso, questo presente assurdo che qualcuno doveva raccontargli; ecco, l’ho fatto, ho risposto. Così ho voluto realizzarlo completamente da solo. Tutti i passaggi che costituiscono la nascita e l’evoluzione di un disco li ho voluti “passare” da solo, fino ad arrivare alla realizzazione dei video.
– E com’è nato il suo videoclip?
Ero solo, non avevo molte possibilità di realizzare immagini con il senso cinematografico che avevo in mente così ho deciso di metterci letteralmente la faccia. Ho preso la fotocamera, e c’è voluto tempo per imparare ad usarla, ho acceso luci, deciso posizioni e immaginato movimenti. Quello che si vede è il risultato di un gioco legato a filo doppio con la filosofia di questo disco. Semplicemente ho voluto quello che si vede. Non sono stato troppo attento al risultato, non potevo, non ho le competenze necessarie, ho avuto dalla mia parte solo il desiderio di farlo. Sto imparando e anche gli altri video che forse usciranno sono stati realizzati così, ogni volta con qualche miglioramento e qualche azzardo. La mia preoccupazione principale è stata quella di realizzare qualcosa che passasse la mia critica, che è sempre dura e implacabile.
- E l’album da cui è estratto? Oppure è in cantiere un album che lo conterrà?
“Arance amare“ è il primo brano del disco: “Caro Lucio rispondo”, un disco con una filosofia specifica che segue, come dicevo, l’idea di rispondere con nove brani a quella lettera al caro amico che Lucio Dalla inviò tramite il brano: “L’anno che verrà”. Un cantiere faticoso e laborioso che mi ha reso orgoglioso di averlo terminato, un percorso di crescita personale vissuto in totale solitudine come scrivere lettere appunto, da solo, a penna nera e in bella copia, messaggi di risposta esondati dal me che ha sentito il bisogno di rispondere a quella missiva.
– Studi, gavetta, sudore e soddisfazioni… vogliamo conoscere la tua storia, tutto il suo percorso!
Ho iniziato a suonare a circa diciotto anni, forse diciannove. Immaginavo per me un percorso da chitarrista coi capelli lunghi e la camicia aperta fino alla vita. Non sapevo cosa fosse la musica, cosa significassero quei segni sulle e tra le righe del pentagramma, ho semplicemente imbracciato la chitarra cercando ad orecchio qualsiasi cosa volessi riprodurre. Con la sfacciataggine di chi ignora completamente le regole ho cercato un gruppo, il primo è stato con gli amici del liceo, ho compreso subito il valore “esorcizzante” di praticare la chitarra, così non l’ho più abbandonata. Ho suonato in molte formazioni, affamato di emozioni, innamorato dei concerti, dell’idea di essere un chitarrista che di fronte al pubblico poteva emozionarlo tramite intriganti melodie e strane armonie. Ho suonato di tutto e un giorno, in totale sfacciata presunzione, ho voluto presentarmi ad un provino di ingaggio in un’orchestra che suonava musica “popolare”. Non sapevo neanche cosa significasse davvero quel termine e mi sono presentato. Alla fine del provino, realizzato in una grande sala, dal vivo e con l’orchestra al completo, il maestro, davanti a tutti e indicandomi, con quel dito secco pieno di storie musicali, mi chiese di alzarmi e pronunciare il mio nome e cognome. Lo feci e lui rispose quasi sprezzante, o almeno così lo percepii: “Sergio Gaggiotti, devi imparare a leggere”. Fui travolto dalla vergogna, da un senso di sconfitta che non avevo mai provato con lo strumento al collo e proprio davanti a tutti quei personaggi evidentemente in grado di farlo. Non avevo minimamente pensato al semplice ma importantissimo requisito della lettura della musica. Il maestro mi prese lo stesso in quell’orchestra imponendomi però di imparare a farlo entro i pochi mesi che mancavano alle prime esibizioni. Sono stati due anni che non scorderò mai, ho scoperto la musica classica, quella popolare, ho scoperto il jazz con un batterista pazzo che lo amava e che continuamente mi ripeteva: “Il jazz è la libertà che cerchi, l’unico genere in grado di farti comprendere che non sei mai nessuno, che non arrivi da nessuna parte e mai ti sentirai contento di quello che sai”. In quei due anni ho preso decisioni e imboccato il percorso di studio grazie al quale ho scoperto che non era suonare la chitarra ciò che desideravo. Quello che veramente mi ha travolto è stato studiare la musica e la composizione, e quello ho fatto. Dapprima come privatista al conservatorio per tre anni, fino al compimento inferiore, poi con studi privati da Maestri che non scorderò mai e dai quali ho imparato tutto quello che so. Non tutto, soltanto quello che so. Ho scoperto di non essere un grande chitarrista e che non era quella la mia strada, piuttosto mi piacque e mi piace ancora scrivere, così come ho amato e amo le parole, ho amato e amo scrivere il vestito per accompagnarle. Amo e mi diverto a immaginare i mondi musicali e i ponti tra quei mondi. Non sono un grande compositore, non sono un grande chitarrista, ma mi diverto molto. La mia gavetta è stata comunque dura, lunga e non è ancora finita. Mi sono messo in gioco tardi, perché tardi ho voluto cominciare a scrivere canzoni per me soltanto, canzoni e musica in grado di far divertire i musicisti che l’avrebbero suonata. Così mi sono circondato da jazzisti e ho iniziato il percorso del mio unico gruppo inventato da me: i Rossomalpelo. Cinque musicisti professionisti per i quali ho scritto musica e con i quali ho vissuto momenti irripetibili. Non facile, molto faticoso, ma abbiamo raggiunto risultati incredibili per essere sempre stati indipendenti: il Primo Maggio di San Giovanni, innumerevoli concerti in tutta Italia e fuori, migliaia di dischi venduti, passaggi radiofonici e televisivi in Rai, brani venduto in tutto il mondo. Tutto senza mai essere stati prodotti, senza mai avere avuto una casa discografica, una agenzai di Booking, un semplice e piccolo aiuto da nessuno. Jazzisti fino in fondo troppo “popolari” per essere jazz e troppo jazzisti per essere pop. Un percorso assurdo che forse un giorno racconterò in un libro, è ancora troppo recente questa storia e troppo da ricordare, quel troppo che ancora mi emoziona e non mi fa scrivere. Mai famosi ma conosciuti al di la di ogni possibile previsione. La mia gavetta non è mai finita e oggi affronto ancora tutto ciò che decido di realizzare, con la consapevolezza di essere un “nessuno” che si diverte a comporre musica per i suoi testi. Ho scoperto poi di voler scrivere racconti, che i romanzi sono difficili e non lo so fare, sono stato pubblicato da una casa editrice seria, la Nutrimenti Editore, ho ricevuto premi, incontrato lettori, ho scritto e collaborato alla stesura di serie televisive, soggetti cinematografici, mai mi fermerò e mai sarà finita questa mia interrotta gavetta. Questo è il puro e semplice percorso di cui mi parlava quel batterista pazzo: mai terminerò la strada perché non è arrivare o diventare famosi il fine di questa mia vita, ma “essere” ancora il Rossomalpelo di sempre, essere quel me che sperimenta e suona immaginando di poter emozionare il pubblico con la chitarra in braccio.
– Quali sono le tue influenze artistiche?
La musica tutta, dalla classica alla contemporanea, la “rumoristica”, passando poi per i Beatles e gli Stones, Dylan, Elvis, Capossela, De André. Bertoli e Straniero, gli stornelli popolari, la musica balcanica. Un giorno poi ho scoperto un tizio francese cantautore “Manouche”. Non potevo credere alle mie orecchie. Vivevo a Parigi, nei pressi di un locale famoso dove anche molti artisti italiani avevano suonato, un giorno lessi il nome di questo personaggio del quale a quel tempo sentivo parlare proprio in città: Sanseverino. Sentivo storie incredibili e sono andato a vederlo. Sono rimasto folgorato dalla capacità di evocazione che quel genere musicale, unito alle parole, sapeva provocare. Mi sono reso conto che la mia produzione musicale andava nella stessa direzione ma mai avrei immaginato potesse derivare direttamente dal Jazz di Django Reinhartd. Quel Sanseverino me lo fece comprendere e tornato in Italia ho portato con me quella scoperta che seppur già mia non avevo mai compreso a fondo. Non sono un cantautore Manouche, ma quello stile di affrontare i live nel modo divertente dei musicisti Gipsy francesi ha totalmente cambiato la visione dello spettacolo da palco. Era il 2002 e poco dopo scrissi e incidemmo “23, con il pelo e con il vizio”, un disco realizzato in live con un orchestra che toccò l’apice di 14 strumentisti.
– Quali sono le tue collaborazioni musicali?
Non amo parlare di questo aspetto, non perché siano strane o non raccontabili, piuttosto perché ho sempre lavorato come Ghost writer, Ghost arranger, Ghost tutto e non tutti gli artisti con i quali ho lavorato amano far sapere che i loro brani, in fondo, non sono completamente loro. Posso però dire che le mie collaborazioni ultimamente mi hanno dato soddisfazioni enormi, ho avuto la fortuna di incontrare esponenti del Rap e della Tra, del Pop, ho imparato moltissimo e stabilito rapporti amicali con degli artisti erroneamente ritenuti non troppo capaci. Ho scoperto con grande piacere e sostengo senza timore di riportarlo che alcuni di loro sono dei veri geni. Un uomo speciale però lo voglio citare, un autore di brani bellissimi che mi ha fatto scoprire il valore del testo musicale: Giancarlo Compagnino. Tra fumi di mille sigarette parlammo di musica e parole, scrivemmo e ancora porto dentro il valore di quelle ore.
- E la collaborazione con Red&Blue nel lavoro in promozione?
Conosco Marco Stanzani da molti anni, una conoscenza non profonda forse, ma profondo è stato il senso di averlo incontrato. Ho scoperto un uomo diverso da quelli che lavorano nel nostro ambiente. Mi è piaciuto subito, non so se lui ha mai provato le stesse sensazioni, so però che ha amato subito un mio brano, voleva farlo uscire come singolo e per quello l’ho ritenuto pazzo quasi come me che l’ho scritto. Mi piacque, lo trovai sereno, in grado di prendere la decisione peggiore per tutti gli altri tranne noi. Non ho mai lavorato con lui, né con la sua agenzia, non ho mai avuto qualcosa che valesse la pena affidargli, qualcosa che non lo mettesse in imbarazzo con il resto del mondo della musica italiana, con gli addetti ai lavori intendo. Oggi è diverso, oggi ho scelto, lo ho scelto. Ha scelto di collaborare con la sua agenzia poiché ritengo di aver l’età giusta dei pazzi e una produzione che voglio far ascoltare. Ho scelto lui perché mi piace, non ho aspettative, so che la mia musica è difficile da digerire ma oggi ho tra le mani qualcosa che vale la pena fargli ascoltare.
- Quali sono i contenuti che vuoi trasmettere attraverso la tua arte?
Spero di poter trasmettere l’esperienza che mi rende consapevole del fatto che non non si è mai troppo soli, non si è mai troppo diversi, che c’è sempre strada da fare prima di dormire, che l’importante è dare tutto e quando meno te lo aspetti, quello che sogni si presenta davanti. Io non sono famoso, sono felice. Consapevole di aver scelto e percorso la strada che volevo e che mi ha donato enormi soddisfazioni quindi ciò che vorrei trasmettere è la semplice vita che sa di strada a volte difficile e pericolosa, ma vera, conquistata con lo studio e la fatica, percorrendo metro dopo metro con la sola forza delle proprie gambe, la vita migliore di tutte, quella che ognuno di noi vive quando sa di essere e di esistere.
– Parliamo delle tue pregiate esperienze di pubblicazioni, live, concerti o concorsi?
Non esageriamo, pregiate esperienze forse è troppo, non sono io a poterlo stabilire comunque, diciamo che ho avuto la fortuna di essere pubblicato e la fortuna di vendere tutti i dischi che ho prodotto. Scrivo libri di racconti, trovo che questa formula di prosa rappresenti pienamente la direzione nella quale mi muovo, veloci, diretti e non troppo lunghi. Mi piace l’essenziale anche se a volte sento il bisogno di prendermi più spazio per ciò che voglio raccontare. Ultimamente infatti ho realizzato il mio primo romanzo. Il mio primo libro di racconti è stato: Malaroma, Nutrimenti Editore, 2005 credo. Forse si trova ancora nelle librerie o in rete. Contiene tre storie di periferia, tre episodi di una Roma periferica e calda, gialla di sole e violenza, qualcuno ha detto “Pasoliniana”, ma è troppo naturalmente. Questo libro è però diventato lettura estiva di qualche liceo romano. Grandissima soddisfazione. La seconda uscita è stata: “Tre pasti nel futuro” (Anche i cuochi possono salvare il mondo) Protopop Edizioni, una serie di racconti fantascientifici dove ai protagonisti, tutti cuochi, capita di poter provare a salvare il mondo. Ho scritto poi dei corti teatrali: “Io, me e tutti gli altri miei me stesso dentro”, i protagonisti sono Caravaggio, Mastro Titta e l’Attore. Monologo in tre atti dove ogni atto è caratterizzato da un cambio personaggio. Non elencherò oltre per non tediare i lettori. Per quanto riguarda i concerti, questi rappresentano l’aspetto più importante, quello in cui ritrovo il contatto con il pubblico e lo spettacolo diventa vita reale di vicinanze e scambi. Mi piace, amo esibirmi da solo, raccontare, presentare i miei brani e leggerne alcuni anziché suonarli. Mi piace farlo in luoghi piccoli, teatri piccolissimi soprattutto, dove il silenzio e la stretta vicinanza sono parte essenziale che precede la baldoria che poi si può creare. Concorsi ne ho fatti pochissimi, di solito infruttuosi, non mi piace l’idea di pagare per esibirmi, ma di un concorso in particolare sono e sarò sempre fiero, anche perché è ancora gratuito: Il concorso per poter suonare sul palco del primo Maggio di Roma, a San Giovanni. Ci sono riuscito e ho potuto suonare nella mia Roma, davanti ad un pubblico che tutto insieme non ho mai visto. Emozionante, resterà per sempre dentro.
Altri scritti e sceneggiature di “serie”, questa nuova formula cinematografica che però non amo guardare. Lavorarci su sì, scriverle è diverso e molto più interessante che guardarle. Credo di potermi fermare qui, sembrerei molto impegnato, forse famoso e produttivo, invece ho una vita semplice e ritirata, part time impegnata come bibliotecario in una Biblioteca, il mio habitat naturale.
- Cosa ne pensi della scena musicale italiana? E cosa cambieresti/miglioreresti?
Penso che sia la stessa da sempre, c’è una parte artistica ed una commerciale che combattono ma in fondo stanno dalla stessa parte. C’è un fermento di artisti pionieri e altri che li seguono per moda, convenienza, o anche solo perché trovano nelle nuove tendenze ciò che gli manca da sempre. Amo alcuni artisti, vecchie presenze e nuovi nomi, non sono molto attento a quello che succede ma quello che succede ti arriva e lo scopri comunque. Sono però molto curioso e ascolto tutto, tutti. Della nostra scena musicale cambierei se davvero potessi, l’atteggiamento di chi sceglie di farti andare avanti: se fossi chi ha il potere di farlo produrrei tutti, lancerei opere innumerevoli lasciando scegliere al pubblico italiano quello che veramente può continuare e andare avanti. Credo però che non esista altro modo di farsi concorrenza qui da noi che cercare il predominio del mercato acquistando tutti gli spazi; così facendo restano fuori tutti quelli che non si adeguano alle mode del momento, ma non è che marginale anche questo. Se sei un artista e cerchi di esprimerti, non ti interessa di certo la fama e la televisione, i like o le milioni di visualizzazioni, il cruccio più grande è riuscire a farsi rappresentare dalle tue stesse opere prodotte. Quindi migliorerei soltanto me, che ancora credo nell’opera come figlia o figlio, una volta terminata deve andarsene in giro per il mondo senza un potere che voglia sostenerla o impedirlo.
- Oltre al lavoro in promozione quale altro brano ci consigli di ascoltare?
Tutti i lavori di chi produce arte o qualcosa del genere vanno ascoltati e scoperti, anche solo per conoscere un poco più a fondo chi ci si presenta davanti. Dei miei brani li segnalo tutti, non perché meritino attenzioni o siano tutti importanti, fanno parte di me come passi e sono la vita che metto a nudo di fronte al mondo. Come si può preferire uno soltanto tra i figli? Ci sono scritti che ancora mi fanno piangere, ma non sta a me farli scoprire, sta alla curiosità e alla ricerca di chi, curioso, studia e osserva la realtà vivendola da dentro.
– Come stai vivendo da artista e persona questo periodo del covid-19?
Non c’è molta distanza tra i miei me che si sentono “persone” e altri che si appropriano dello stato di “artista”, sono fermo da oltre due anni, non suono nei teatri da quando è esplosa la Pandemia, ma non smetto di scrivere, perché vivo. Come tutti reagisco a quello che succede e sconforto, pianto, illusione e voglia di riscatto, voglia di tornare ad essere uno dei tanti che incontri anche solo passeggiando. Questo mi piace e questo faccio. Ho scritto molto, ho scritto questo mio nuovo disco e qualche racconto, una serie tv, non mi fermo, di certo il periodo ha avuto un peso tremendo e influito sui temi e le emozioni di cui porlo, di certo come tutti ho paura per questo nostro mondo dove anche un singolo pazzo può decidere il destino di tutti. Sono stato colto da un senso di inadeguatezza e vergogna; come si può parlare di arte o di una futile canzone quando c’è gente che soffre e muore? Come posso presentarmi ilare e giulivo per l’opera appena prodotta quando il mondo muore sotto bombe che siano pandemiche notizie o quelle vere, che esplodono radendo al suolo interi quartieri? Forse l’unico modo per combattere è farlo ognuno coi propri mezzi e i miei sono la musica e le parole; non saprei, non lo so davvero. Sento comunque che si deve farlo per non lasciare il mondo in mano a coloro che vogliono distruggerlo. Ognuno come gli va, come diceva Lucio, ognuno come gli viene. L’importante è fare fronte comune con ciò che si considera “bello”, con l’arte e vorrei dire anche con l’amore, che non è mai soltanto relazione, ma stile di vita e umanità che prende posizione.
- Quali sono i tuoi programmi futuri?
Non ho programmi, solo sogni. Il mio sogno è quello che il mondo ora si salvi, che tutti si torni a vivere come nei dopoguerra: convinti che tutto andrà sicuramente meglio e che la bellezza ci salva. Di me e dei miei piccoli sogni posso dire soltanto che quando si tornerà a vivere senza gli incubi di guerre, vorrò sicuramente incontrare gente e sorrisi nelle piazze; fare spettacoli in teatri piccoli e tornare ad essere il pacifico uomo di sempre.