Incontriamo Luca V artista , vita e curiosità partendo da Litio

Accogliamo calorosamente e spalanchiamo le nostre curiose orecchie a Luca V , artista poliedrico che sta facendo incetta di consensi coi suoi lavori musicali. Recentemente impegnato nella promozione del lavoro Litio, leggiamo con curiosità l’intervista a Luca V , grati e onorati per il suo tempo e la cortesia riservataci! Scopriremo interessanti retroscena musicali e di vita, Luca V si narrerà con quelle che sono le collaborazioni, le esperienze, e i progetti futuri. Tuffiamoci in questo mondo speciale e diamo un caloroso benvenuto a Luca V !

Com’è nata tua la passione per la musica?

Avevo quattro anni. Non capivo ancora bene cosa fosse davvero la musica, ma sapevo che quella chitarrina di plastica tra le mani… aveva qualcosa di magico.
Poi il tempo è passato. Crescendo, ho scoperto che la musica era l’unica cosa che non perdevo mai, neanche nei giorni storti.
Non so se sia stata una scelta o se sia semplicemente il “caso” o il “destino”.
Scrivere, cantare, suonare: più che una passione, è diventato il mio modo di respirare fuori tutto quello che dentro, a volte, pesa troppo per restare zitto.

Com’è nato “Luca V ” e il suo personaggio, il suo sound?

All’inizio non c’era nemmeno un’idea chiara. Nessun piano preciso, nessun “personaggio” studiato a tavolino.
C’ero io, c’era quella fame di suonare, di raccontare… e basta.

Poi, con il tempo (e anche un po’ per proteggermi), ho capito che avevo bisogno di un nome che fosse mio, ma non solo mio.
Lucido è stato il primo tentativo. Funzionava, forse… ma non raccontava più niente di me. Era diventato un’etichetta troppo stretta, quasi fastidiosa.
E allora l’ho lasciato andare.

Luca V invece è nato senza troppi ragionamenti. Era semplice, diretto, quasi istintivo.
Anche un po’ ironico, se vogliamo: ho scelto il nome in base al dominio web più economico che trovavo, “lucav.com”.
Mi suonava bene. Mi sembrava sincero. E poi, strano a dirsi, più passava il tempo, più sentivo che era quello giusto.

Il sound? Anche quello è venuto un po’ per accumulo, un po’ per sottrazione. Non ho mai voluto stare in un genere solo. Non mi ci riconosco nelle etichette: pop, indie, cantautorato…
Ho preso quello che mi serviva da ognuno di loro. Ho “rubato” emozioni, suoni, difetti.
Ho mischiato tutto insieme, senza preoccuparmi troppo di farlo ritornare “perfetto”.

Perché in fondo, anche io sono così. Un misto. Un po’ incastrato, un po’ storto. Ma, alla fine, spero proprio, vero.

Prima l’uovo (il testo) o la gallina (la musica). Com’è stato il processo di creazione di Litio?

Litio non è nato da una base musicale. Non da un giro di accordi, né da un ritmo che mi girava in testa.

È nato da immagini. Immagini che non mi lasciavano stare.

Prima sono venute le parole. Spezzate, slegate. Frasi buttate giù quasi senza forma… che poi, a modo loro, si sono trovate. E si sono aggrappate l’una all’altra.

La musica è arrivata dopo. Non per coprire il silenzio, ma per seguirlo.
Come una seconda pelle.
Una pelle a volte ruvida, a volte troppo sottile.

Volevo che Litio suonasse instabile. Che traballasse. Che desse fastidio, in certi punti. Che non fosse mai “perfetto” nel senso canonico.

Non ho mai pensato a come sarebbe stata ascoltata. Ho solo pensato a come sarebbe stato impossibile non scriverla. E allora, se mi chiedono se è nato prima l’uovo o la gallina…
rispondo che è nato prima il bisogno. E solo dopo tutto il resto.

Si sa che un’immagine vale più di mille parole, ma le note non sono da meno! Il lavoro è stato valorizzato da una clip?

Sì. Il videoclip di Litio non è nato per “illustrare” la canzone. È nato perché senza immagini certe cose rischiavano di restare sospese, senza appigli.

Non volevo effetti. Non volevo stupire. Volevo solo che chi guardasse… sentisse.
Anche senza capire tutto.

La scena è semplice: una stanza. All’inizio in ordine, perfetta quasi, poi lentamente tutto comincia a sgretolarsi.
Cadono i quadri, si spegne e riaccende la luce, si disfano i letti, si incrinano gli specchi.

Non c’è una morale. Non c’è una trama lineare. Solo la voglia di raccontare il momento in cui smetti di tenere tutto su… e ti lasci cadere in un’altra fase.

Volevo che il videoclip facesse quello che, a volte, le parole da sole non riescono a fare:
non spiegare, ma evocare. Non dire, ma lasciare un segno. Magari anche piccolo, magari anche scomodo. Ma vero.

Non so se ci sono riuscito. Ma so che non avrei potuto girarlo in nessun altro modo.

E l’album da cui è estratto? Oppure è in cantiere un album che lo conterrà?

Non c’è, per ora, un album già pronto da cui Litio è estratto. Non ancora, almeno.

Sto costruendo tutto un passo alla volta, una canzone alla volta, un brano al mese.
Non tanto per strategia, o forse un po’ sì, anche se a modo mio, ma perché sento che ogni brano ha bisogno del suo tempo. Della sua verità. Della sua “ferita”.

Quando le tracce saranno abbastanza, o meglio, quando sentirò che insieme hanno senso, nascerà l’album. Non so ancora se sarà un album ordinato, preciso forse sarà incasinato, disallineato, disomogeneo. Ma vero, sì. Quello sempre.

E alla fine… è l’unica cosa che voglio davvero da questo percorso: un disco che non sembri finto. Un disco che somigli, anche solo un po’, a me.

Com’è stato il percorso dall’esordio ad oggi?

Percorso? Non so nemmeno se posso chiamarlo così.
È stato più un viaggio, qualche volta sull’asfalto rovente e a piedi scalzi (!), altre volte sulla ghiaia.

All’inizio non pensavo nemmeno che avrebbe avuto una forma. Scrivevo, cantavo, mettevo giù pezzi di me senza sapere dove sarebbero finiti (o se sarebbero serviti a qualcosa).
Poi, piano… o forse a strattoni… sono arrivate le prime canzoni vere. Quelle che non cancelli il giorno dopo, quelle che ti fanno male mentre le canti ma che, nonostante tutto, continui a scrivere.

Ho cambiato rotta più volte di quante riesca a contare. Pop, indie, rap. Alcune cose le ho tenute, altre le ho lasciate andare senza guardarmi troppo indietro. Ci sono stati momenti in cui ho pensato di smettere. Altri in cui ho capito che non ne sarei stato capace.

Non è stato un percorso “dritto”. Non è stato sempre chiaro. Né pulito.
Però è stato vero. E se dovessi scegliere una parola soltanto, oggi, sceglierei proprio questa.

Vero. Con tutte le sue cicatrici, i suoi buchi, le sue ripartenze improvvise.

Non ho mai inseguito una meta precisa. Ho solo cercato di restare fedele a quello che sentivo, anche quando sembrava fuori tempo massimo, anche quando sembrava inutile. E forse, a pensarci bene, è proprio questo il bello.

Quali sono le tue influenze artistiche?

Non è una lista precisa, di quelle che puoi mettere in fila e dire: “ecco, tutto nasce da qui”.

C’è Dargen D’Amico, da sempre.
C’è Fedez, soprattutto nei primi anni.
Prima ancora, da ragazzino, c’erano Tiziano Ferro, Samuele Bersani, gli 883.

Poi ho scoperto gli Psicologi, Ariete, Drast…
e ho capito che si poteva essere fragili senza doversi scusare.

Ascolto tanto, forse troppo.
Negramaro, Rkomi, J-Ax, Alessandra Amoroso…
Non importa il genere, importa l’emozione che mi arriva.
Se mi sposta qualcosa dentro, allora funziona.

La verità è che non ho mai voluto copiarli. Li ho “respirati”, questo sì. Li ho lasciati entrare, senza filtri, senza difese. Poi, inevitabilmente, qualcosa è rimasto incastrato, anche nei miei brani.

Quali sono i contenuti che vuoi trasmettere attraverso la tua arte?

Non voglio dare lezioni. Non voglio insegnare niente a nessuno.

Quello che cerco, ogni volta che scrivo, ogni volta che canto, è far sentire meno soli.
Raccontare la parte che di solito si nasconde. Quella che non arriva nelle foto perfette, nei post patinati, nei racconti sempre vincenti.

Parlo di fragilità. Di errori. Di cadute.
Di tutto quello che fa paura a dire ad alta voce.

E, sì, parlo anche di forza. Ma non quella che si mostra a pugni chiusi.
La forza che ti fa rimettere in piedi, anche quando non ne hai voglia. La forza di restare vero, anche se… “storto”.

Se attraverso quello che faccio, anche solo per un attimo, qualcuno si sente visto, o almeno capito, allora per me ha già avuto senso. 

Parliamo delle tue pregiate esperienze di pubblicazioni, live, concerti o concorsi?

Se parliamo di live, concerti o concorsi… ancora no.
Non ci sono stati, almeno non ancora.

Il mio percorso, finora, è stato tutto costruito sulla musica pubblicata.
Sui brani, sui videoclip, sui contenuti che ho cercato di far arrivare a chi aveva voglia di ascoltare anche senza vedermi dal vivo.

Sono partito dai singoli, promossi attraverso video, campagne pubblicitarie, social media.
Senza etichetta alle spalle, senza una macchina organizzativa dietro.
Solo io, e quello che riuscivo a costruire pezzo per pezzo.

A febbraio 2025 ho raggiunto i 5 milioni di streams tra Spotify, YouTube, Apple Music.
Ma non è il numero che conta, o almeno non solo.
Conta che sono arrivato lì senza filtri. Facendo tutto in autonomia, anche sbagliando (tanto), anche imparando a forza di cadere.

Cosa ne pensi della scena musicale italiana? E cosa cambieresti/miglioreresti?

La scena musicale italiana oggi è…. Enorme!
È viva, forse più viva di quanto non sembri a uno sguardo distratto.
C’è tutto: il pop, l’indie, la trap esasperata, l’underground che resiste (a fatica).

Non penso che vada tutto male.
Anzi, trovo che ci siano artisti straordinari che hanno ancora il coraggio di scrivere “di pancia”, senza preoccuparsi troppo dei numeri.
Il problema, se c’è, è che spesso chi fa più rumore è chi ha meno da dire. E chi ha qualcosa da raccontare… a volte resta nascosto, sommerso.

Se potessi cambiare qualcosa? Sì. Vorrei che si avesse meno paura della complessità.
Meno voglia di semplificare tutto in slogan facili, in ritornelli-meme che ti dimentichi dopo dieci secondi.

Vorrei uno spazio, anche piccolo, per chi ha bisogno di raccontare una storia senza per forza renderla instagrammabile.
Un tempo più lento. Un ascolto più profondo.

Non so se è realistico, forse no. Ma se faccio quello che faccio è anche per cercare, nel mio piccolo, di riempire quel vuoto.

Oltre al lavoro in promozione quale altro brano ci consigli di ascoltare?

Oltre a Litio, ci sono due brani che, se vi va, consiglio di ascoltare.

Uno è Tour Eiffel.
È una canzone che parla di un amore sbagliato, di quelli che ti promettono il cielo e poi ti lasciano a guardarlo da solo.
È più leggera come atmosfera, ma dentro ha comunque una malinconia che si incolla.

L’altro è Pelle di Prozac.
Un pezzo più crudo, più diretto. Racconta la depressione, senza troppi filtri.
Parla di quel tipo di tristezza che non sai bene da dove arriva… ma quando arriva, ti travolge.

Sono due lati diversi della stessa faccia, forse.
Due pezzi che, in modi diversi, continuano a raccontarmi anche quando non li canto più.

Quali sono i tuoi sogni nel cassetto?

Ne ho tanti… Troppi forse. Alcuni ancora chiusi così stretti che faccio fatica io stesso a tirarli fuori.

Il sogno più grande? Continuare a scrivere canzoni che parlino davvero a qualcuno.
Non a tutti, non m’interessa più, ma a chi ha bisogno di sentirsi meno solo, anche solo per due o tre minuti.

Vorrei un giorno suonare dal vivo davanti a chi conosce le mie parole prima ancora che io apra bocca. Vorrei che LITIO, e tutte le canzoni che verranno, potessero trovare casa in chi si è sentito fuori posto almeno una volta. E poi, lo ammetto, c’è anche il sogno (forse ingenuo) di vedere un mio brano cantato da una folla che non conosco, e cheppure sa già tutto.

Non sogno stadi. Non sogno lustrini. Sogno connessioni vere.
Quelle che restano anche quando si spegne il microfono.


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